lunedì 1 giugno 2020

Il cielo in una stanza

All’Olimpiade di Roma, Urss batte Usa 103 a 71. Nel frattempo, Mina canta una camera dal soffitto viola. E Paoli sfida la censura…


Storie (di) note


Umberto Broccoli – Sette (allegato al Corriere della Sera) 30 settembre 2016


1960 anno bifronte e bisestile. Dolce e amaro al tempo stesso con il presente in corsa verso il futuro, ma con un passato sempre pronto a innestare la retromarcia. Il futuro cammina con la benzina super, per la prima volta (e unica se non ricordo male) con il prezzo in discesa. Ho parlato sia di quest’anno incredibile, sia de La Dolce Olimpiade, la VII Olimpiade di Roma, ultima Olimpiade dal volto umano, dolce e colorata come La Dolce Vita, contemporanea e rappresentativa del momento. 1 settembre, Roma, Stadio Olimpico. È la finale dei 100 metri piani maschili. L’attesa è per Ray Norton, americano, campione da battere. Arriverà ultimo. Vince Armin Hary, tedesco con i primi 10” netti della storia dell’atletica: medaglia d’oro. Secondo, un altro americano del New Jersey a tre soli centesimi di distacco dal primo: medaglia d’argento. Ma c’è dell’altro, in linea con il 1960, anno bifronte. Il mondo è diviso, si sa: da una parte l’Unione Sovietica del comunismo, dall’altra gli Stati Uniti del consumismo liberale e occidentale (quello della benzina super e del boom economico). Ed è gara ovunque, per arrivare primi nello spazio, per acquisire primati, per avere armi sempre più potenti in una sorta di derby Urss-Usa destinato a non avere vincitori, ma solo vinti. A Roma l’Unione Sovietica stacca gli Stati Uniti 103 medaglie a 71. Un successo per confermare l’egemonia di Nikita Sergeevic Chrušcëv, presidente del Consiglio dei ministri dell’Urss. Una trafittura ulteriore per Dwight David Eisenhower, presidente Usa uscente. Bisogna fare qualcosa per rappresentare all’Occidente le negatività di quell’Oriente oltrecortina e comunista. Quale circostanza migliore se non un atleta sovietico, pronto a restare a Roma per non tornare a casa, dimostrando così al mondo quanto quella casa fosse inospitale? La Cia individua il soggetto: è Igor Aramovich Ter-Ovanesyan, campione di salto in lungo. Bisogna dargli una sponda. Trovata: è David Sime il centometrista, proprio lui, uno degli uomini più veloci della terra e pronto a collaborare per la causa dell’Occidente. Un simbolo forte di futuro in accelerazione per aiutare un saltatore sovietico a fare un salto ancor più lungo dei suoi oltre otto metri di record. Non so come siano andati realmente i fatti, dei quali non si è mai parlato molto. Sime, pare, abbia fatto incontrare un agente della Cia con Igor Aramovich Ter-Ovanesyan, senza risultati se non quello di farne rientrare rapidamente le intenzioni di fuga dall’Urss. Mentre accadono queste cose, cambia anche la canzone italiana. Due anni prima c’era stato lo scossone di Nel blu dipinto di blu e quel “Volare, oh oh / cantare oh oh oh oh” rivoluziona modi e modo di cantare. Da allora, tanto cielo nelle canzoni di quel 1960. E Il cielo in una stanza è la più ascoltata in senso assoluto, proprio nell’estate dell’Olimpiade di Roma. Scrive Gino Paoli, arrangia Tony De Vita, canta Mina: «Quando sei qui con me/questa stanza non ha più pareti ma alberi, / alberi infiniti quando sei qui vicino a me/questo soffitto viola no, non esiste più / Io vedo il cielo sopra noi che restiamo qui abbandonati / come se non ci fosse più niente, più niente al mondo. / Suona un’armonica mi sembra un organo / che vibra per te e per me su nell’immensità del cielo. / Per te, per me: nel ciel». «Ma che razza di canzone è questa», si chiedono gli amanti del bel canto all’italiana, quello del cuore in rima con amore, quello del cantar con la mano sul petto con voce ferma e con postura sobria. Figuriamoci quando – narra la leggenda – Paoli dichiara la sua ispirazione sul soffitto viola, derivata dal colore dell’intonaco di alcune case per appuntamenti, chiuse ufficialmente nel 1958, ma evidentemente ancora presenti non solo nell’immaginario. Già Anna Maria Mazzini, in arte Mina, ha sufficientemente sconvolto il pensiero antico e in retromarcia verso gli anni del dopoguerra: urla e non canta. E con lei la fine dei Cinquanta vede –o meglio, sente – nascere gli urlatori. Ora, complice Paoli, si cantano soffitti viola, trasporti peccaminosi e vietati per legge nel 1958 dalla senatrice Lina Merlin. Paoli concede al tempo passato l’ultimo verso senza la “o” finale, in pieno stile “cuor”, “amor” come ogni altra parola resa tronca per esigenze di metrica delle canzoni del prima e del Dopoguerra. Paoli guarda avanti e vede l’orizzonte, senza “pareti, ma alberi” con un’immagine nuova e progressiva. Al tempo stesso il cielo si tronca in “ciel”, “Per me, per te: nel ciel”.

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